Chi non dubita non cubita


martedì 29 novembre 2011

LAVORARE FA MALE

"Io lavoro e penso a te...".
Basta una frase per descrivere il dramma di chi lavora: sta facendo una cosa desiderandone un'altra. 
Il lavoro non ti fa trombare, per esempio, a meno che tu non sia una pornostar, un gigolò o una puttana. E quando esci dal tuo luogo di dovere non è detto che il piacere sia lì che ti aspetta a cosce aperte. Magari mentre tu lavoravi le ha aperte a qualcun altro.


Tutti vogliono il lavoro, perché per come va oggi il mondo lavorare è l'unico modo di guadagnarsi onestamente i soldi per vivere. Vivere cosa, la propria vita o quella dell'azienda per cui si lavora? E quand'anche l'azienda fosse nostra, perché deve essere più importante della vita stessa?


Quante ore, giorni, mesi, anni, decenni si regalano a qualcun altro in cambio di miseri compensi? Miseri, qualunque sia la loro entità, perché niente può valere più della libertà.
Ma siamo arrivati al punto che la libertà possiamo concedercela solo se ci ballano in tasca i lilleri, perché, come si dice a Firenze, senza lilleri un si lallera.
Quel briciolino di tempo libero che ci si ritaglia tutti insieme nelle stesse ore, per lo più stanchi e delusi dalla noia quindi spesso inclini allo sballo, non è la libertà, diventa un altro lavoro.


La maggior parte delle persone lavora senza soddisfazioni, odiando il proprio datore di lavoro e il luogo del martirio, trovandosi in un eterno sabato del villaggio.
Kafka spostava di un giorno la questione, ottenendo gli stessi risultati di Leopardi: "Tu sei destinato a un grande lunedì... Ben detto, ma la domenica non finisce mai". Grandioso.


I disoccupati si lamentano, i precari si lamentano, i lavoratori si lamentano... Alla fine gli unici a non lamentarsi sono i barboni, quelli che hanno scelto la libertà senza vincoli, senza compromessi, e accettano una vita disagiata e randagia, ma del tutto priva di obblighi. 
Sia ben chiaro, questo non è un inno al clochardismo, anzi, non è un inno a nulla, restando un discorso senza alcuna costruttività. Diciamo l'utopia di un puro, che vorrebbe una vita piena e senza doveri se non quelli della normale convivenza tra esseri umani, che vorrebbe l'amore come primo valore in ogni cosa, in ogni azione. E che se lavoro dovesse esserci lo vorrebbe solo e unicamente di completa soddisfazione del lavoratore, o niente.


Tu, se non sei un fottuto parlamentare, lavori tutta la vita per una pensione da fame, e una volta uscito dal giro lavorativo ti senti sperduto, quasi fuori posto. E trombi sempre meno.
Se qualcuno ti domanda cos'hai fatto nella tua esistenza rispondi: "Ho lavorato". E' la prima cosa che ti viene alla mente. Così come in TV chiedono sempre ai concorrenti dei quiz: "Lei cosa fa nella vita?". La risposta è invariabilmente il tipo di lavoro. Perché per vita si intende il lavoro. Mai nessuno che risponda: "Mi diverto", oppure: "Vivo". 


E un giorno muori. E cos'hai vissuto a fare? Quanto prezioso tempo ti sei fatto rubare?
Forse all'ultimo istante te ne rendi conto.
Tardi.


Questo scritto scriteriato se può servire a qualcosa è a godere di un momento speciale che sembra normale, alzando più spesso gli occhi al cielo, e precipitandoli più spesso nel profondo dell'anima, smentendo l'amara e splendida constatazione di Ennio Flaiano, secondo cui "i giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei. Gli altri fanno volume".


Riempilo più che puoi, finché puoi, il tuo volume.


Gianni Greco